L’esperienza vissuta e quella che stiamo ancora vivendo, frutto della fiducia che riponiamo nelle potenzialità di bambini unici e dei loro compagni, è quella di mostrare che partendo da una situazione di svantaggio si può ottenere un vantaggio per tutti. Il possibile di queste esperienze è quello di guardare oltre la disabilità, oltre la patologia. Solo così la parola integrazione non rischia di rimanere una parola vuota di significato, stampata su decine di documenti e normative che tutelano a parole il diritto di queste persone a essere e non ad apparire. Ma l’apparenza è quella che spesso prevale come diritto di questi bambini nella nostra scuola. Un’apparenza fatta di stereotipi e luoghi comuni. Sentiamo ancora oggi mamme parlare della presenza di un bambino diversamente abile in una classe come di un ostacolo alle attività svolte. Per noi l’ostacolo è rappresentato da queste persone, e da quella categoria di insegnanti che non accolgono o comunque delegano all’insegnante dell’integrazione un compito che tocca il loro lavoro quanto il nostro.
Al contrario noi ci sentiamo in debito con questi bambini unici, quelli che abbiamo incontrato e quelli con cui oggi condividiamo le nostre giornate di lavoro, perché ci hanno trasmesso la consapevolezza di non arrendersi davanti alle difficoltà, e queste esperienze sicuramente ci hanno dato la possibilità di crescere sia professionalmente, ma soprattutto come persone.